Lasciate
che mi presenti
Sono piemontese di nascita, di Biella e lo capirete dal mio accento
barbaro. Sono stata tredici anni in Congo e adesso, da 17 anni, sono
con Padre Carlo a Piombino. Noi pensiamo che oggi, in questa fase della
vita della Chiesa, i laici sposati, le famiglie, sono missionari anche
ad gentes, a pari dignità con sacerdoti e suore. La vera Chiesa
non è formata da missionari, suore o preti da soli, ma la vera
missione è formata da piccole comunità cristiane che sono
l’immagine ecclesiale di preti e laici insieme.
Il nostro compito, a Piombino, è preparare la partenza di piccole
fraternità formate da preti e laici, comunità ministeriali
dove ognuno ha il proprio ruolo: il laico non fa il prete e il prete
non fa il laico, ma insieme, in una certa zona, si porta avanti corresponsabilmente,
il territorio di missione che ci è stato affidato. Questo è
il lavoro che stiamo facendo a Piombino.
So bene che la maggioranza di voi potrebbe essere qui al mio posto,
perché io sono una semplice cristiana, che non ha altra consacrazione
che quella battesimale, anche se ho dato la vita alla missione. Parlo
partendo dall’esperienza. Siamo partiti negli anni settanta, con
una certa mentalità di Chiesa, la Chiesa del Congo ci ha fatto
il regalo di una visione, di un modo di essere Chiesa, che ci ha veramente
cambiato.
Crediamo
in un Dio-Famiglia
Venendo al tema dell’incontro, Quali cristiani per quale missione,
l’accento lo metterei su quali cristiani, perché
quale missione viene di conseguenza, e questa mattina non aspettatevi
delle novità, sentirete delle cose che già vivete. La
mia proposta è: ripassiamo insieme la lezione per essere
veramente Cristiani e Chiesa!
Noi crediamo in Gesù e in Dio. Com’è che lo possiamo
chiamare il nostro Dio, Dio Padre? C’è solo lui? Diciamo
di credere in Dio, ma noi non abbiamo un Dio generico, abbiamo un Dio-Trinità,
che io preferisco definire un Dio-Famiglia, e questo cambia davvero
la nostra fede. Il Dio-Famiglia vive due grandi realtà: la prima
è la Comunione. Viene fuori dal Vangelo: sono
in tre, una famiglia, c’è il maschile e il femminile nella
Trinità, dove si amano da morire, ma il loro amore non sta chiuso
al proprio interno, ma si apre alla Missione, e questa
è la seconda realtà. Ecco la vita del Dio-Famiglia: Comunione
e Missione.
Come Gesù, missionario del Padre
Il nostro Dio si apre alla Missione inviando uno della famiglia, Gesù;
si apre rischiando, questa Famiglia di Dio. Ecco, la vita del nostro
Dio-Famiglia è una vita di comunione, con un grosso amore all’interno,
un amore che si apre e va in missione, rischiando, per annunciare a
tutti questo amore. E chi è che viene a visitarci e ci dice che
Dio è comunione e missione, e che torneremo
a lui? È Gesù, ovviamente, che perciò chiamerei
Missionario del Padre; questo è il nostro faro,
in questo momento.
Il Vangelo di Giovanni (20, 21), ci racconta che, la sera stessa della
resurrezione, Gesù apparve ai suoi e pronunciò quella
famosa frase: Come il Padre ha mandato me, così io mando
voi! Come e così, queste
sono le due parole più importanti, alle quali noi non facciamo
caso. Ma su queste due parole bisognerebbe stare in contemplazione non
un’ora, ma una vita intera! Perché non finiremo mai di
capire che come il Padre ha mandato il Figlio, così,
allo stesso modo, Gesù manda noi.
Com’è che il Padre ha mandato Gesù, o meglio, come
Gesù è stato missionario del Padre? Per semplificare,
direi sostanzialmente con tre atti, che appartengono anche alla nostra
vita cristiana.
Primo: Nazareth
Il primo atto voluto dal Padre, perchè Gesù diventasse
missionario tra noi, lo definirei con una parola, Nazareth. Perché
Nazareth ci dice una cosa importantissima: Dio è venuto in mezzo
a noi e si è fatto uno di noi, ha imparato a diventare uomo nella
nostra cultura. Per noi non c’è l’incarnazione, perché
siamo già carne, per noi c’è l’inculturazione.
Se la missione è al modo di Dio, allora la vita di Nazareth sta
a significare lo scendere di Dio nella nostra vita. È il quotidiano
il primo luogo della missione, perciò Nazareth vuol dire che
Gesù vedeva la situazione del suo tempo, l’oppressione
del suo popolo, l’esercito romano, le ribellioni, le relazioni
di potere: vedeva, capiva e faceva sintesi. Il pensiero del Padre, quello
che aveva imparato dal Padre, e quello che vedeva, e faceva sintesi.
Allora, per noi, Nazareth è sintesi tra vita concreta
e parola di Dio, parola e vita, sempre insieme per poter veramente
capire.
Io ritengo che noi cristiani dobbiamo confrontarci oggi con tre nodi:
il potere economico, sostenuto dal potere dei media, e dal potere militare.
Questi sono i tre grandi nodi che soprattutto qui, nel nostro mondo,
annebbiano la vita. E le tre grandi sfide quali sono? Pace,
giustizia e salvaguardia del creato. Queste cose noi le dobbiamo
portare nel cuore, se si vuole far scoppiare la novità di Gesù
Cristo, nella nostra quotidianità; se io sono casalinga e lavo
i piatti, continuerò a lavare piatti, ma è molto diverso
lavare i piatti sapendo come sta andando il mondo e lavarli senza avere
orizzonti.
Se tornando da un mese in missione, in questo mondo non ci si ritrova
più, è tutto sbagliato davvero, non siamo a Nazareth!
Questo mondo è amato da Dio ed io lo devo amare, amare la mia
quotidianità, sia che lavi i piatti, sia che faccia il medico,
sia che vada un mese all’estero, sia che ritorni. Bisogna amarla
la quotidianità! Perché Gesù l’ha amata.
Questa è la prima cosa.
Secondo: i tre anni di vita apostolica
Ma attenzione: Gesù non si è fermato alla quotidianità,
ha elaborato la sua vita per annunciare. Dopo Nazareth, vengono i tre
anni di vita apostolica, in cui Gesù vive una vita di comunione,
di amicizia, di missione e di apertura. Non fa tutto da solo, pur essendo
Dio: si associa i dodici. Dice il Vangelo di Marco (3,13-15) che è
fondamentale: chiamò quelli che volle, che andarono da lui,
e questi erano dodici... e li costituì. Li chiamò perchè
stessero con lui e per inviarli a “predicare e a scacciare i demoni”.
Chi erano questi dodici? Tutti noi! Perché 12 erano le tribù
che costituivano l’intero popolo d’Israele, e nei 12 chiamati
da Gesù è presente tutto il nuovo popolo di Dio. Li ha
chiamati, prima di tutto, perché stessero con lui. Per imparare
a conoscerlo. Stare con lui, stare tra loro e stare con tutti:
questo è quello che oggi chiamiamo vita di comunione. E poi li
ha inviati. A far cosa? Il testo dice a “predicare e a scacciare
i demoni”. Beh, diciamolo in italiano moderno. Come possiamo tradurre
predicare? Evangelizzare, annunciare l’incredibile amore di Dio.
L’annuncio non è la catechesi. Guardate che oggi, la maggioranza
dei cristiani che richiedono i sacramenti (il battesimo dei bambini,
prime comunioni, cresime) sono dei pagani! Quindi, predicare
significa saper annunciare l’amore di Dio.
E scacciare i demoni vuol dire vivere la solidarietà, ma al modo
di Gesù: non una solidarietà qualsiasi, non pura beneficenza,
ma una solidarietà liberante, dal male morale e materiale. Dove
l’altro, che è lì a chiedere, sempre chinato, diventa
protagonista della propria vita; si alza in piedi, in faccia agli altri
e davanti a Dio. Questa si chiama missione. Ma come facciamo a vivere
la comunione e la missione? Com’è che possiamo vivere la
comunione? Negli atti degli apostoli, al capitolo 2, 42-47, leggiamo:
erano assidui ad ascoltare la Parola, la vita
di fraternità, nello spezzare il pane
e nella preghiera. Questi sono i quattro pilastri
su cui si fonda la comunione, senza di essi non c’è comunione
che tenga.
Gesù aveva detto: Verrà lo Spirito e vi ricorderà
ogni cosa e vi porterà la verità tutta intera. Per
noi missionari, e cristiani, lo Spirito è presente in tutte le
persone, in tutte le culture e in tutte le religioni. Se io ce l’ho
dentro, mi aiuta capire ascoltando le altre persone, che come dicevamo,
è la cosa più importante: l’ascolto della
vita delle persone e della Parola per poterle integrare. C’è
una grossa conversione da fare, se vogliamo che lo Spirito Santo, che
abbiamo dentro di noi fin dal giorno del battesimo, e che è presente
ovunque nel mondo, ci parli e ci conduca alla verità tutta intera.
Terzo: La morte in croce
Non è mica finita con la vita pubblica, la vita di Gesù.
Ci manca l’ultimo atto, la morte in croce! Se dovessi definire
la croce, non saprei da che parte cominciare: è indicibile, è
ineffabile, è un mistero, è amore gratuito, è perdono
unilaterale e senza pentimenti, è per tutti, è accoglienza
gratuita... È aver tolto la parola nemico dal vocabolario, insieme
alla parola guerra, giusta o ingiusta che sia.
E la missione è la sequela di Gesù Cristo, vissuta qui
e in ogni luogo della terra, fino al dono di sé, anche per il
nemico. La discriminante della vita cristiana si gioca lì: se
nel momento difficile, sei capace di tenere ancora la porta aperta a
Dio e agli altri, in una fraternità che non finisce nemmeno davanti
al dolore, all’odio e alla violenza. Altrimenti sei tale e quale
agli altri.
Allora il missionario, la missione, non è l’aiuto ai poveri
che muoiono di fame; no, assolutamente, non è l’aiuto umanitario.
La missione è la testimonianza di una vita di comunione
e di missione portata fino all’amore estremo, gratuito, unilaterale.
È chiaro che, se io sbarco in Congo e vedo degli uomini e delle
donne che, per la mia fede, sono fratelli e sorelle, in situazioni di
grave disagio, come posso accettarlo? Ecco, allora, la lotta all’ingiustizia,
la lotta contro la fame, ma è la conseguenza di un amore che
ho dentro di me e, a questo fratello, non trasmetto solo il pane, ma
anche questa visione di vita, perché anche lui entri nel giro
dell’amore.
E se c’è qualcuno che va, ma non è un credente?
Molto bene, perché a me è chiesto di vivere la vita di
Gesù, e questa devo testimoniare, ma con l’altro possiamo
camminare mano nella mano. Tornando dall’Africa, sono stata a
Sarajevo con i 500, insieme a Monsignor Tonino Bello, nel pieno della
guerra, poi sono stata al simposio internazionale della pace in Butembo
organizzato dai Beati i Costruttori di Pace. C’erano missionari,
missionarie, molti credenti e tanti giovani che rischiavano la vita.
C’erano anche tantissimi non credenti; ecco, la cosa più
bella per me è stato vederli lavorare, mano nella mano, coi credenti.
Ma questi non sono missionari al modo di Gesù; li considero fratelli
e sorelle, e insieme con loro, ciascuno a partire dalla propria fede,
cerchiamo di costruire un mondo migliore. Ma la missione cristiana
è annuncio e testimonianza di Gesù Cristo, tutte
le cose umanitarie sono solo una conseguenza.
La
nostra missione, qui e ora
Bisognerebbe avere il coraggio di inventare nuovi cammini pastorali,
più missionari, anche qui, nelle nostre parrocchie. Come si fa?
Abbiamo i Sinodi, abbiamo un mare di cose, ma bisogna tornare alla evangelizzazione.
Quando siamo arrivati nella parrocchia di Cotone, vicino alle acciaierie,
su 3000 abitanti, avevamo sette donne che frequentavano la parrocchia,
la più giovane aveva 70 anni!
Da dove partire? Da una testimonianza e da chi ti veniva a chiedere
i primi sacramenti. Si, senz’altro, però fai un cammino
con la Parola di Dio! Da lì sono nate tante piccole comunità
di base, che noi chiamiamo comunità del Vangelo, otto piccole
comunità, che sono la minoranza nel nostro quartiere, però
tutto il quartiere fa i conti con la comunità cristiana. Dice
dei sì e dei no, c’è una grande simpatia, si lavora
contro l’inquinamento, per la pace, per la giustizia, per quello
che si può con tutti, ma l’importante è che questi
pochi che vengono in chiesa, nelle otto piccole comunità del
Vangelo, che si riuniscono settimanalmente nelle case, abbiano questa
vita di comunione, di missione e di annuncio.
Le chiese si svuotano e chissà che non sia una benedizione
di Dio e un richiamo per noi cristiani ad essere quello che
dovremmo essere, perché la missione non è per portare
gente in chiesa, ma è per fare piccole comunità che vivono
la vita di Gesù e che irradiano. Quello della partecipazione
non è più affare nostro, è affare della coscienza
personale dell’uomo e della donna, del singolo, ed è affare
di Dio. A noi il compito di testimoniare il Vangelo.q
ecco testo integrale della relazione
di Emma Gremmo